Tor des Géants – Il “mal di Tor”
- plnmsm69
- 6 nov 2022
- Tempo di lettura: 15 min
Aggiornamento: 7 nov 2022
Tutta colpa del Natale

È la vigilia di Natale 2021, a casa mia abbiamo organizzato il consueto cenone in famiglia, oltre a
mia moglie c’è mio fratello e mia cognata, i miei suoceri, le due sorelle di mia moglie con i
consorti. La nostra tradizione è quella di aprire i regali alla vigilia, cose poco costose ma che siano
utili o ancora meglio da mangiare. Il mio regalo quest’anno sembra essere speciale, è una
chiavetta USB contenete un video. Lo attacchiamo alla televisione e lo vediamo tutti insieme. È un
video clip di pochi minuti con le foto del mio Tor des Géants, corso nel 2021. Paesaggi, persone, i
momenti alle basi vita, la festa di premiazione, tutto accompagnato da una musica evocativa. È
stato un gran lavoro fatto in combinazione da mia cognata e mia moglie che ha raccolto tutto il
materiale. Ovviamente mi commuovo e gli occhi si fanno un po’ gonfi, vuoi perché capisco quanto
lavoro ed affetto ci siano dietro alla creazione di un video così, vuoi perché il rivedere quelle
immagini mi fa venire in mente tutti i momenti vissuti durante il Tor e la nostalgia prende il
sopravvento. E’ probabilmente quello il momento in cui qualcosa è scoccato dentro di me, la
fiammella che si riaccende, come la fiamma olimpica si riaccende ogni quattro anni, per la mia
sono bastati quattro mesi, ed ecco che avevo nuovamente voglia di correre di notte, di dormire
nelle brandine, di incontrare le mie allucinazioni, di assistere a delle albe in montagna spettacolari,
di scendere a tutta velocità in mezzo ai boschi, insomma, di rivivere quei momenti unici e
meravigliosi che solo una corsa come il Tor des Géants ti sa regalare. È una sensazione che ho
scoperto essere condivisa da moltissimi di coloro che hanno affrontato a questa gara, la chiamano
proprio “mal di Tor”.
In realtà mi ero ripromesso di non parteciparvi più, almeno a breve, volevo provare qualche altra
gara, qualche altro viaggio. Ma poi a febbraio 2022 quando si sono riaperte le iscrizioni, mi sono
trovato nuovamente a compilare il modulo online. Mi sono detto: “tanto vedrai che quest’anno
non mi prendono”, ed invece contrariamente al mio pronostico (ed alle speranze di mia moglie) a
marzo sono stato estratto! Avevo nuovamente diritto a partecipare al Tor des Géants.
La preparazione
Il fatto di avere già corso una gara come il Tor, con i suoi 350 km effettivi e 26000 metri di
dislivello, offre l’indubbio vantaggio di sapere bene o male cosa ti aspetta e di avere già un’idea
della preparazione. Per non lasciare però nulla al caso, e per disciplinarmi un po’, decido di
affidarmi anche quest’anno per la preparazione alla mia coach Lisa Borzani, per la parte di
fisioterapia alla mia amica Ilaria Magistri (che è pure trail runner di gran livello) aggiungendo però
anche la cura degli aspetti nutrizionali con Sara Toloni, che oramai moltissimi di noi della Virtus
conoscono. Inizia così la lunga preparazione da febbraio, fatta di tantissimi percorsi fuori strada,
gare in montagna più o meno lunghe, e soprattutto tanti chilometri e dislivello. A differenza però
del 2021 il caldo incide tantissimo sugli allenamenti e arrivo così all’11 di settembre, data della
partenza, in forma discreta ma sicuramente non ottimale.
Partenza ed aspettative
Il sabato prima della partenza è come sempre una giornata di festa, la fila per ritirare la mitica
borsa gialla ed il pettorale è piuttosto lunga, ma questo ti dà l’opportunità di conoscere un sacco
di altri runner, ognuno con il proprio bagaglio di aspettative e di speranze. Tutti ovviamente un po’
si nascondono dietro ad infortuni o deficit di preparazione, ma ovviamente l’obbiettivo per
chiunque è quello di fare una bella corsa e di arrivare a Courmayeur (cosa sicuramente non
scontata in una gara che vede più della metà dei partecipanti ritirarsi lungo il percorso). Per molti
poi è la prima volta, perciò, l’emozione è ancora più forte, è tutto una novità. Per quanto mi
riguarda l’adrenalina è sempre tanta, anche se un po’ stemperata rispetto all’anno precedente, ho
la mia routine da seguire, so le cose da fare, so cosa portare e cosa è superfluo, e questo mi rende
molto più tranquillo. La notte precedente alla gara riesco anche a dormire e così posso
presentarmi sulla linea di partenza bello riposato e sereno. Entro in griglia che mancano 15 minuti,
si ride, si scherza, si scambiano impressioni e speranze con chi ti sta vicino, chiunque ti dirà “per
me l’importante è arrivare”, poi cosa spera veramente solo lui o lei può saperlo. Un bellissimo sole
ci riscalda, la musica ci carica, c’è tantissima gente intorno, si sente parlare in tutte le lingue,
italiano e francese soprattutto, ma anche inglese, tedesco e tante altre per me indecifrabili. Poi
davanti alla linea di partenza c’è il mitico Silvano Gadin, con microfono in mano, che pensa ad
intrattenere atleti e spettatori, elenca i nomi dei corridori “top” che puntano al podio, i luoghi che
attraverseremo, le crisi che affronteremo, qualche pensiero per chi non c’è più e poi, dopo la
musica dei Pirati dei Caraibi, eccolo scandire il conto alla rovescia e alle 10 esatte lo sparo dello
start.
La partenza è sempre un po’ frenetica, due ali di folla ti incitano per tutto il percorso, sia in città
che sui primi sentieri. Tanti scattano avanti, alla prima salita ci sono già sorpassi e controsorpassi,
si cerca di tenere un bel passo e si corre dovunque si può, si arriva così al primo colle e si scende
verso La Thuile in un attimo. La giornata è molto calda ed al primo ristoro mi fermo pochissimi
minuti. Come l’anno scorso c’è mia moglie Vivien ad aspettarmi, mi saluta con un bacio, ci diamo
appuntamento tra quattro giorni all’ultima base vita di Ollomont dove l’attendono ancora come
volontaria.
Io riparto di corsa, sono in anticipo rispetto al 2021 di 15 minuti e voglio salire velocemente verso
il primo vero colle (Passo Alto). Arrivo con un pochino di affanno e poi mi lancio a tutta velocità in
discesa, c’è un bel terreno pietroso dove mi diverto molto, merito dell’allenamento estivo in cui ho
partecipato soprattutto a gare molto tecniche e sono più preparato rispetto all’anno precedente.
Nel tardo pomeriggio sono alla salita del Col Crosatie e qui cominciano i dolori.
La crisi vien di notte
La salita è impegnativa e la patisco molto. È vero la giornata è calda ma l’anno precedente avevo
fatto molta meno fatica. Nell’ultima parte devo fermarmi parecchie volte per prendere fiato, mani
sulle ginocchia e l’ultimo pezzo con le catene è una vera tortura. Arrivo in cima molto stanco e mi
devo sedere per riposare cinque minuti. In discesa le cose vanno nuovamente meglio, riesco ad
essere veloce ed arrivo a Planaval e poi alla prima base vita di Valgrisanche (chilometro 48)
abbastanza bene. Il mio vantaggio di 15 minuti rispetto all’anno precedente è però quasi sfumato.
A Valgrisanche posso riposare un po’, mi cambio e mangio, preparo tutta l’attrezzatura necessaria
per la notte. Esco dalla base vita con il morale sollevato, cena, riposo e biancheria nuova fanno
miracoli, e mi avvio verso il tratto più difficile del Tor con i 3 colli: Col Fenetre, Entrelor e Lauson ad
una media di altezza di 3000 metri, da percorrere uno di seguito all’altro. Il primo colle lo supero
abbastanza bene, ma l’Entrelor è tutta un’altra cosa, la salita è lunga e difficile e vado nuovamente
in affanno, respiro a fatica e mi sento stanchissimo. Mi devo sedere un sacco di volte e tantissimi
concorrenti mi superano. Ho mal di stomaco ed il morale a questo punto è sotto i piedi. Tutte le
crisi che non ho attraversato nel 2021 si sono presentate quest’anno. Il mio pensiero è: “ma se
devo soffrire così la prima notte come faccio a trascorrerne altre quattro?”. Il buio sembra
amplificare tutte le mie paure e lo sconforto. Raggiungo la cima dell’Entrelor a fatica e mi fermo al
primo ristoro subito dopo il colle. Sono distrutto, vorrei fermarmi dove sono e farmi portare giù
dall’elicottero. L’idea è quella di scendere in Valsavaranche e gettare la spugna. Inizio la discesa
camminando, appena ricomincio a corricchiare mi prendono dei crampi allo stomaco che mi
buttano a terra, cerco di rimettere ma in realtà non esce nulla, gli spasmi sono veramente
fortissimi ed io sono anche un po’ spaventato dalla situazione. Ricomincio a camminare ed arrivo
al ristoro di Eaux Rousses dove mi sdraio su una panca con un tè caldo in mano. A questo punto
devo capire bene cosa voglio fare. La tentazione di mollare è fortissima, ho già tutto in mente, mi
riportano a Courmayeur, dopo qualche ora recupero la mia borsa con il cambio e poi prendo il
primo Flixbus disponibile (sono senza auto) per tornare a casa ad Arese. Alla sera sarò davanti ad
un bel piatto di pasta, con indumenti comodi, con un bicchiere di vino in mano con mia moglie che
mi consola e che mi dice che sono stato comunque bravo e ci ho provato. So già però
inevitabilmente che durante tutto il percorso inizieranno i rimorsi: “e se avessi provato a fare
qualche chilometro in più? Magari un bel piatto di pasta e un po’ di riposo sarebbero bastati, e poi
il meteo era bello e con calma avrei potuto passare almeno un altro colle”. Penso al percorso che
mi manca per arrivare alla base vita di Cogne, ci vorranno ancora 6 o 7 ore, bisogna salire al Col
Lauson, 3926 metri, il punto più alto di tutto il Tor.

Fatto quello ci sarà però una bella discesa fino
al rifugio Sella e poi giù a Valnontey ed infine Cogne. Mi sento un po’ meglio, lo stomaco non
brontola più, proviamoci. Rimetto quindi lo zainetto, bacchette in mano e parto. La prima parte
della salita è molto semplice, ho un ritmo continuo, ogni tanto si socchiudono gli occhi, sono le
primissime ore del mattino ed il sonno si fa sentire. A metà salita c’è una bellissima fontana, butto
la testa sotto per svegliarmi e poi attacco la parte “dura”. Anche qui devo fermarmi diverse volte
per riprendere fiato, ma la salita al colle è dura per tutti, soprattutto l’ultima parte, abbiamo tutti
le facce stravolte, a turno ci sediamo su qualche roccia. Finalmente esattamente a mezzogiorno
sono in cima. Come sempre dal Lauson la vista è magnifica, dietro si vede il Monte Bianco ed il
Rutor, di fronte tutto il gruppo del Gran Paradiso, in lontananza si vede il Rifugio Vittorio Sella e
poi la valle di Cogne. Il morale è nuovamente alto, mi faccio la discesa correndo, mi fermo un
istante al rifugio e poi giù fino a Cogne. Attraverso il paese correndo tanto che un altro
concorrente mi dice: “fermati, guarda che la base vita è poco più avanti” ed io gli rispondo “corro
proprio perché non vedo l’ora di entrarci”.
La politica dei piccoli passi
Alla base vita di Cogne (chilometro 102) solita routine: pasto, doccia, 50 minuti di riposo. Nella
brandina, dove tanto non si riesce a dormire, penso che sia un miracolo essere arrivato fin lì. Sono
riuscito a superare il tratto con maggiore dislivello e ora mi aspetta una tappa facile. Rispetto
all’anno precedente oramai sono in ritardo di circa 2 ore, però passo dopo passo, senza farsi
assillare dal cronometro potrei farcela. Esco nel tardo pomeriggio da Cogne, la salita è leggera fino
alla Fenetre de Champorcher, poi ci sarà la discesa infinita fino alla base vita di Donnas. Questa è la
tappa più corta. Come sempre la parte peggiore sono le 2 o 3 ore di discesa di notte nei boschi tra
Champorcher e Bard, su un sentiero orribile, sporco, pieno di sassi e radici. L’esperienza dell’anno
precedente però mi suggerisce di portare pazienza e così verso le 4 di notte vedo le luci del
famoso Forte di Bard e dopo altri 25 minuti circa di corsa la base vita di Donnas (chilometro 148).
La base vita è affollata ma riesco a trovare fortunatamente una brandina. Verso le 7.30 esco dalla
base vita e mi accingo ad affrontare la tappa più lunga del Tor: da Donnas a Gressoney.
Il saluto dei lupi
La salita fino al rifugio Coda è però un vero calvario, e vi arrivo stremato. Il Coda è una tappa
importante perché considerato la metà del Tor, siamo al chilometro 165, ed è l’unica tappa che
arriva in Piemonte. Incredibilmente non c’è nebbia. Pranzo con un piatto di pasta, panna e
prosciutto (comincio ad essere stufo di pasta in bianco, in brodo, al pomodoro…) e mi avvio prima
verso il rifugio Barma e poi su un lunghissimo su e giù che mi porterà a Niel. Ci sono solamente due
ristori lunghi il percorso, l’area è molto selvaggia, il sentiero è orribile, secco, tantissimi sassi, è
impossibile correre. La discesa verso Niel poi è nuovamente di notte, lunghissima, qui compare
anche il fango perché ci si trova in una valle stretta e molto umida. La fatica ora si fa veramente
sentire, quando devo superare un ultimo colle mi faccio un po’ prendere dallo sconforto. Ho finito
anche la mia ultima barretta energetica, mi siedo su una pietra, davanti e dietro di me non c’è
nessuno per chilometri. Sono un po’ preso dal torpore quando un suono in lontananza mi risveglia
tutti i sensi: è l’inconfondibile ululato di un lupo. Il suono è forte, profondo, potente, dura diversi
secondi e non è l’unico. Dopo poco si sentono tantissimi altri ululati su diverse tonalità, è tutto il
branco che sta ululando. Verso la fine poi gli ululati sono più acuti e leggeri, sono i cuccioli del
branco che imitano i “grandi”. Quel suono è allo stesso tempo bellissimo e inquietante. Sembra
arrivare dall’altro versante della valle, non ho particolarmente timore dei lupi, pur non avendone
mai incontrati, mi hanno sempre detto non essere pericolosi per l’uomo. Però non vorrei trovarmi
in mezzo ad un branco che potrebbe anche scambiarmi per una pecora! Allora mi rialzo in piedi e
piano piano arrivo in cima al colle. Mi viene in mente che anche l’anno scorso avevo sentito i lupi
in un’altra valle, durante l’ultima notte della gara. Lo voglio perciò prendere come un segno di
buon auspicio, forse sono venuti a salutarmi ed incitarmi, come farebbe un amico. Con lo spirito
più leggero scendo verso Niel, la strada è molto lunga, ci vogliono circa un’ora e mezza, ma alla
fine arrivo al bellissimo ristoro. Mi offrono polenta e birra ma per ora rifiuto, posso ancora
resistere con un po’ di riso in bianco ed un pezzo di mocetta. Si riparte per un altro colle, avvolto
nella nebbia, che dopo un lungo altopiano scende verso la base vita di Gressoney (chilometro 200)
dove arrivo che è già mattino. La tappa più lunga e temuta del Tor è fatta, ci sono volute circa 24
ore, ma finalmente posso farmi una doccia e riposare in branda.
Il mio regno per un cuscino
Riparto sotto una leggerissima pioggia che non dà fastidio, salgo verso il Col Pinter che divide la
valle di Gressoney e la val d’Ayas, a Champoluc riposo ancora un 45 minuti e poi via verso la base
vita di Valtournanche (chilometro 236). Arrivo verso sera piuttosto stanco e nella penombra
davanti all’ingresso della base vita intravedo una figura famigliare. È mia moglie Vivien che mi sta
aspettando, mi ha fatto una sorpresa arrivando in anticipo e nessun incontro potrebbe essere più
bello per me in quel momento. Per un istante tutti i dolori ed il peso che mi gravano sulle spalle si
dissolvono. Non l’abbraccio perché sono coperto di fango (qualche caduta sul percorso), ma lei mi
saluta lo stesso con un bacio ed una carezza. Entriamo insieme alla base vita di Valtournanche, è
bello avere un po’ di assistenza e chiacchierare un po’ anche di cose “normali”. Poi solita doccia e
riposo, e come l’anno precedente vedo che cominciano a presentarsi le vesciche. Per ora è solo
una molto grossa e riesco a curarla da solo con ago, filo e disinfettante. Ma alla prossima tappa
probabilmente non sarà così facile. Riparto verso le 23, Vivien è già andata perché lei l’indomani
comincia alle 6 come volontaria alla base vita di Ollomont. La salita verso il rifugio Barmasse è
sotto una pioggerella sottile ed in cima mi ritrovo dentro ad una nuvola che non si vede ad un
metro di distanza. Per fortuna mi ricordo bene il percorso, perciò, non rischio di perdermi. Dopo
almeno 30 minuti che corro nel nulla sbuco senza accorgermi sotto la diga di Cignana. Il rifugio
Barmasse è ad un passo. Mi fermo pochissimo condividendo per qualche minuto la poltrona con
un cane assonnato ed un po’ infastidito dalla mia presenza, e riparto, la notte sarà lunga. Verso le
4 del mattino comincio ad avere veramente sonno, faccio fatica a stare in piedi, vedo figure umane
dappertutto, ma sono solo rocce o piante. Il percorso è in leggera salita, un po’ noioso, si vede
poco per le nuvole. Vorrei sdraiarmi e dormire me è notte e fa freddo, rischierei di non riuscire poi
più a continuare, o addirittura l’ipotermia. Non posso fare altro che proseguire però mi si
chiudono gli occhi. Quando devo attraversare un ruscello dopo un saltello cado a faccia in giù, non
ne posso più, per parafrasare la battuta “shakespeariana” nel Riccardo III: “il mio regno per un
cuscino”. Finalmente arrivo in cima al colle e posso scendere verso il rifugio Magià. Arrivo che sono
circa le 6 del mattino e chiedo ai volontari un letto per dormire. Mi mettono in una fantastica
stanza da solo dove posso riposare per quasi un’ora. Poi i soliti dolori alle gambe mi svegliano, è
l’ora di ripartire. È una mattinata bellissima, salgo al rifugio Cuney dove faccio quattro chiacchere
con un soccorritore. Mi racconta che nella notte hanno avuto un bel da fare con un ragazzo
arrivato con un ginocchio gonfio e che ha voluto proseguire a tutti i costi, salvo poi essere
recuperato poco dopo da un elicottero del Soccorso Alpino. Io però a parte la stanchezza sto bene,
quindi riparto di buon umore, anche perché arrivato al colle vedo quelle che considero le
montagne di “casa”, il Monte Emilius e la Grivola, che ho la fortuna di vedere anche dal balcone
dalla mia casetta di Sarre. Faccio qualche foto e via verso il ristoro di Oyace dove arrivo nel primo
pomeriggio e poi all’ultima base vita di Ollomont (chilometro 283).
Mi faccia vedere lo zaino
Il tratto da Oyace ad Ollomont lo faccio quasi tutto di corsa. Alla base vita c’è Vivien, che dopo
essersi fatta 12 ore da volontaria, ora deve dare supporto a me. La vedo che mi riprende con il
telefono proprio all’entrata, però di fronte a me c’è un commissario di gara che mi ferma. Con aria
molto seria mi intima di aprire lo zaino perché sono arrivate delle segnalazioni e deve fare delle
verifiche. Io non sono molto lucido e la richiesta mi coglie di sorpresa, non sono preoccupato però
non capisco bene cosa stia accadendo. Appena mi giro per togliere lo zainetto il ragazzo mi dà una
pacca sulla spalla e si mette a ridere. È tutto uno scherzo organizzato da mia moglie, l’anno scorso
mi aveva fatto accogliere da Franco Collé, quest’anno ha pensato a qualcosa di ben diverso. Ci
facciamo tutti e tre una bella risata, la mia faccia allibita deve essere stata molto divertente in quel
momento. Entro nella base vita, una birra, pasta ed un pezzo di fontina me li sono proprio
meritati. Dopo avere mangiato tiro via le scarpe e come l’anno scorso vedo i piedi belli pieni di
vesciche. Mi rivolgo quindi ad un infermiere che mi fa sdraiare su un lettino e con ago,
disinfettante e cerotti mi sistema per l’ultima parte della corsa.
Via Roma
È quasi mezzanotte quando riparto, il cartello per escursionisti all’inizio del sentiero dice che
mancano “solo” 19 ore per Courmayeur. Nel primo tratto mi fa compagnia una coppia di corridori
francesi, lei ha una bronchite che la fa tossire ad ogni passo, non so come farà a terminare la gara
in quello stato. Li supero e vado avanti, la notte è piacevole, non fa freddo e non piove, verso le 4
del mattino sono al ristoro di Saint Rhemy en Bosses dove l’anno precedente avevo dormito sotto
un tavolo. Questa volta decido di fare come tutti gli altri e seduto su una panca butto la testa tra le
braccia. Per fortuna metto la sveglia perché mi addormento di schianto e mi sveglia il suono del
telefono dopo 10 minuti. È ora di ripartire per l’ultima salita verso il mitico Col du Malatrà. Quando
albeggia arrivo al rifugio Frassati dove decido di dormire per un ora per poter affrontare poi
riposato l’ultima salita e la lunga discesa verso Courmayeur. Il sonno è rigenerante, anche se come
al solito mi sveglio ben in anticipo per i dolori alle gambe, e così dopo 40 minuti di sosta esco dal
rifugio ed arrivo in cima al Col du Malatrà. Foto di rito, selfie e la consapevolezza di “esserci quasi”.
La mattina è bella, anche se il gruppo del Monte Bianco è avvolto dalle nuvole, le previsioni infatti
sono per freddo e neve in arrivo nelle prossime ore. La discesa sulla balconata della val Ferret e poi
verso il rifugio Bertone è veloce, si sente aria di casa ed il traguardo è vicino, pregusto la birra e la
pizza che mi divorerò all’arrivo. Incrocio un sacco di turisti, moltissimi stranieri, tutti salutano e mi
fanno i complimenti. Dopo il rifugio Bertone inizia un sentiero terribile fatto di sassi e radici. Non è
facile correre ma ci provo e dopo meno di un’ora arrivo all’entrata di Courmayeur. È fatta, è giunto
il tempo della passerella nella via centrale. Imbocco correndo via Roma, è venerdì pomeriggio e c’è
molta gente in giro. È bello poter attraversare la strada tra gli applausi, gli incitamenti, i rumori dei
campanacci. Non ho vinto nulla, non ho neanche un piazzamento degno di nota, ma in quel
momento dal primo all’ultimo ci sentiamo tutti protagonisti. Alle 14.26 taglio il traguardo e come
sempre dall’altra parte della transenna c’è Vivien che mi accoglie con un bacio ed un abbraccio.
Sono molto stanco, ho i piedi che mi fanno malissimo, ma contrariamente all’anno precedente
sono un po’ più lucido. Mi fermo a mangiare l’agognata pizza, recupero la borsa gialla e torno a
casa, dove mi butto sul letto, finalmente posso dormire.

E adesso?
Sono stato fortunato, mentre io passavo la notte tra venerdì e sabato al caldo nel mio letto, la gara
veniva sospesa. Sul Malatrà ha cominciato a nevicare copiosamente e sono scesi almeno 20/30
centimetri di neve in poche ore. Almeno metà dei “superstiti” del Tor devono ancora attraversare
il colle ma vengono bloccati al Rifugio Frassati e poi fatti scendere e riportati a Courmayeur con i
bus. Posso solo immaginare quanto sia difficile per chi sta correndo da 5 giorni, non poter
percorrere quegli ultimi maledetti 30 chilometri prima dell’arrivo e non ricevere l’applauso della
gente di Courmayeur. La domenica durante la premiazione questa delusione è evidente sul viso di
molte persone. Sono però rincuorati dal fatto che sono comunque considerati “finisher” (anche se
non tutti) e possono così partecipare alla passerella finale. Si viene chiamati per nome, si sale sul
palco, si riceve la medaglia si indossa la maglietta “finisher” per la foto ed il saluto finale, tutti i 590
arrivati. Quando sento il mio nome annunciato dallo speaker provo un po’ di emozione, salgo sul
palco e saluto gli amici e la famiglia che mi chiamano dal pubblico. Sono emozionato, c’è tempo
per la foto finale tutti insieme e così si chiude il Tor des Géants 2022. Alla sera ripenso a ciò che
questo viaggio mi ha lasciato, anche questa volta l’affetto delle persone e soprattutto dei volontari
mi resterà indelebile nel cuore, e poi le notti stellate, i vari cervi, stambecchi, volpi e marmotte che
ho incrociato lungo il percorso, l’ululato dei lupi, le varie allucinazioni che anche stavolta mi hanno
tenuto compagnia. È strano perché invece i momenti difficili si dimenticano in fretta, ho fatto
decisamente più fatica dell’anno precedente, ma sono sensazioni che piano piano spariscono, per
lasciare posto ai ricordi più belli. Ora qualcuno mi ha detto che non c’è due senza tre, e quindi
potrei pensare di riscrivermi anche per il 2023. Per fortuna c’è ancora moltissimo tempo, il famoso
“mal di Tor” che ho provato a Natale del 2021 non si è ancora presentato, ed immagino che mia
moglie farà di tutto per non farmelo arrivare, anche perché si dovrebbe sorbire un’altra
primavera/estate tra gare ed allenamenti. In ogni caso le sfide possibili sono tantissime, dall’UTMB
alla Swiss Peaks o qualche mitica 100 miglia americana. Purtroppo sono quasi tutte gare
gettonatissime ed è necessario passare per una lotteria, vedremo quindi cosa mi offrirà il 2023,
intanto mi godo questo periodo di riposo pianificando la nuova stagione. In fin dei conti l’inverno
con le sue notti lunghe è il momento ideale per fare nuovi sogni.
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